Confermata la multa da 2,4 miliardi a Google.
La Corte di giustizia della Ue ha confermato l’ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta dalla Commissione a Google per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti.
Google ha favorito il proprio sistema di comparazione dei prodotti e dovrà pagare la multa inflitta dalla Commissione europea. La Corte di giustizia della Ue ha confermato l’ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta a Google per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti. L’impugnazione proposta da Google e Alphabet nei confronti della Commissione europea è stata dunque respinta.
Nel 2017 la Commissione aveva inflitto un’ammenda di circa 2,4 miliardi di euro a Google per aver abusato della sua posizione dominante su vari mercati nazionali della ricerca su Internet favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti rispetto a quello dei suoi concorrenti. Poiché il Tribunale ha, in sostanza, confermato tale decisione e mantenuto l’ammenda di cui sopra, Google e Alphabet hanno proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, che è stata respinta da quest’ultima confermando così la sentenza del Tribunale
Nel dettaglio, nel giugno 2017 la Commissione aveva constatato che in tredici paesi dello spazio economico europeo (fra i quali l’Italia) Google aveva privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Google aveva infatti presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione e li aveva valorizzati all’interno di «boxes», accompagnandoli con informazioni visive e testuali attraenti. I risultati di ricerca dei comparatori concorrenti erano invece presentati con risultati generici e sotto forma di link blu.
La Commissione ha concluso che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet nonché su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti. E ha inflitto un’ammenda di 2 424 495 000 euro, per il pagamento della quale Alphabet, in quanto socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo di oltre 533 milioni di euro. Google e Alphabet hanno contestato la decisione della Commissione dinanzi al Tribunale dell’Unione europea. Nel novembre 2021 il Tribunale ha essenzialmente respinto il ricorso e confermato l’ammenda. Ha però ritenuto che non fosse dimostrato che la pratica di Google avesse avuto effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, sul mercato della ricerca generale.
Di conseguenza, esso ha annullato la decisione della Commissione nella parte in cui tale istituzione aveva constatato una violazione del divieto di abuso di posizione dominante anche per quanto riguarda quest’ultimo mercato. Google e Alphabet hanno allora proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, mediante la quale chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui ha respinto il loro ricorso, nonché l’annullamento della decisione della Commissione.
La Corte di giustizia ha rigettato l’impugnazione e confermato la sentenza del Tribunale.
Il diritto dell’Unione, ricorda la Corte, “sanziona non l’esistenza stessa di una posizione dominante, bensì soltanto lo sfruttamento abusivo di quest’ultima. In particolare, sono vietati i comportamenti di imprese in posizione dominante che restringano la concorrenza basata sui meriti e siano dunque suscettibili di causare un pregiudizio alle singole imprese e ai consumatori. Tra tali comportamenti rientrano quelli che, con mezzi diversi dalla concorrenza basata sui meriti, ostacolano il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza su un mercato in cui il grado di concorrenza è già indebolito, proprio in ragione della presenza di una o più imprese in posizione dominante”.
Nel caso in questione, il Tribunale aveva effettivamente stabilito che, alla luce delle caratteristiche del mercato e delle circostanze specifiche, il comportamento di Google era discriminatorio e non rientrava nell’ambito della concorrenza basata sui meriti